Deumanizzare. Il percorso iniziato dai Mnemic ormai dieci anni fa continua e si sviluppa attraverso un’evoluzione decisamente cauta ma costante nel loro ultimo lavoro, dal titolo un po’ autoreferenziale, Mnemesis. Il quintetto continua imperterrito sulla sua strada per cercare la formula perfetta del modern metal, in costante equilibrio tra una proposta musicale sempre più fredda, industrializzata e cibernetica, conciliata però da una fase compositiva in cui l’elemento umano è preponderante. I Mnemic attuali sono una sorta di cyborg, in cui un corpo meccanico spinge al massimo la parte suonata, anche grazie ad una produzione veramente super pompata ed anabolizzata, ma il cervello umano si occupa del songwriting, abbastanza vario ed articolato, anche se a volte un po’ ruffiano nella ricerca costante del ritornello catchy.
Il risultato è un album complesso anche nella sua linearità, forse l’uscita migliore della stagione per quanto riguarda potenza e ricchezza dei suoni, capace di unire le influenze originali di Fear Factory e Meshuggah a rinnovate compattezza e solidità figlie del metalcore, ma anche di derive visionarie prossime al progressive. Sebbene sia facile notare come le strutture dei danesi cerchino spesso la facile presa e l’impatto immediato, ripetuti ascolti di Mnemesis mettono in risalto soluzioni e sottigliezze decisamente interessanti, come le citate derive cyber-prog, il lavoro certosino svolto sulla voce con cori ai limiti dell’incredibile e le intrusioni elettroniche che risultano un valore aggiunto che completa e arricchisce i brani. Intelligente anche il modo in cui è strutturato l’album, che dopo una prima parte bella tirata e dai ritmi molto serrati viene spezzato da una perla come “There’s no tomorrow”, vero e proprio gioiellino in cui i Mnemic dimostrano di saper scrivere gran musica intelligente e visionaria. Guillaime Bideau rinuncia per cinque minuti al growl mettendo in risalto la sua splendida voce melodica, riuscendo a dare un grandissimo trasporto emotivo ad un brano che esprime tutta la sua carica anche su coordinate più prog e dilatate rispetto al resto dell’album. Ottimo anche il lavoro del nostro Simone Bertozzi (un altro cervello in fuga, ebbene sì!) che sorregge col suo basso vivo e pulsante le parti più pesanti, costituendo l’ossatura su cui poi si vanno ad inserire strati e strati di chitarre. Parti pesanti che, come detto in precedenza, a volte danno l’impressione di non essere altro che semplici passaggi tra un ritornello e l’altro, la parte della canzone che viene messa maggiormente in risalto grazie a ripetuti passaggi. Peccato perché i Mnemic a livello tecnico ci sanno veramente fare e i momenti di thrash evoluto a volte sono veramente delle bombe, ma sembra che troppo spesso siano rinchiusi all’interno di strutture commerciali che tendono a diventare dei clichè. L’album è comunque ampiamente promosso, magari a livello di varietà e spontaneità non è il massimo della vita, ma va ascoltato per capire che suoni si possano tirare fuori con una produzione stellare.