Una meravigliosa morte rossa si sta propagando in Europa, all’incirca dal 2010. Trattasi del verbo sabbathiano nella sua accezione retrò, legato all’hard rock e riecheggiante la psichedelia, con quell’odore di progressive della più nobile natura, quando questo era sperimentale e aperto a commistioni ardite, a lanciarlo verso territori indefinibili. Un composto di umori multiformi ricoperto da strati, ora più sottili ora più grevi, di oscurità, misteri, presenze demoniache evocate talvolta sottilmente, talaltra con messaggi chiari e lampanti. Di questa corrente i Ghost sono stati finora il caso più eclatante, grazie anche a una immagine azzeccatissima per veicolare il messaggio, comunque di alto profilo artistico, del loro satanico esordio “Opus Eponymus”. Accanto agli enigmatici svedesi di entità ignota, vi sono orde di freak in agguato pronti a scalare le graduatorie di preferenza di migliaia di appassionati.
Gli olandesi The Devil’s Blood vanno se possibile un passo più in là dei già ottimi colleghi scandinavi, avendo elaborato in soli due dischi un manifesto d’intenti che copre quarant’anni di rock ad alta gradazione diabolica, ricorrendo agli effluvi dell’hard/prog/doom dei tempi andati con una freschezza e una sensibilità da lasciare di stucco anche i più scafati ascoltatori. La prima chiave per entrare in questo mondo fuori dal tempo e dalle umane dimensioni è la voce sacerdotale, messianica, concentrato di quanto di più solenne si possa immaginare, dell’altera singer Farida; le sue sono le carezze del Diavolo che vi blandisce, vi seduce e poi getta senza misericordia nei gironi più dannati dell’Inferno. Poi vi colpiranno al cuore le trame fittissime di basso e batteria, l’una il controcanto dell’altro nel modulare un tappeto ritmico in divenire, singolare senza ricorrere ad astrusi tecnicismi, sublimazione e trasmutazione del normale operato di una sezione ritmica hard rock; è un percussionismo magnetico, che sembra rispondere a delle leggi inconoscibili, e per questo ancora più intrigante. Chitarre e hammond si fondono in una perfetta compenetrazione di atmosfere bucoliche, strutture free degne della psichedelia più ardita, hard rock celestiale e scultorei contrappunti metallici, dai toni comunque sfumati, data la resa morbida delle sei corde, che risaltano per la ricchezza delle partiture e degli intrecci piuttosto che per l’impatto. Nel disco si stagliano momenti di stentorea serenità e squarci sottilmente sinistri, tra i quali è difficile delineare confini netti e cesure definitive. Alcune tracce, tendenzialmente le più lunghe e maestose, virano sul roboante, l’imponente e il misterioso ed esaltano il lato cupo, mistico e oserei dire alchemico del combo: “The Madness Of Serpents”, la title-track, “Everlasting Saturnalia”, sono straordinarie in questo senso. D’altra parte, “She”, “Cruel Lover”, “Fire Burning” sono lì a dimostrare un estro stellare anche nei brani più tipicamente hard rock, lievemente più lineari e con chorus riuscitissimi. “Feverdance”, mastodontica traccia di chiusura, apre a dismisura i confini spazio-tempo; sommessa e psichedelica all’ennesima potenza la canzone è quanto di meno facile l’album proponga, ma con un po’ di impegno anch’essa svelerà tutti i suoi tesori. All’estraniante impressione iniziale segue, con i passaggi nello stereo, la sensazione di marmorea bellezza delle singole tracce, tra le quali non vi è un passaggio a vuoto o una nota fuori posto. Difficile che “The Thousandfold Epicentre” non lasci un segno indelebile nei vostri cuori.